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La metamorfosi di una star

La metamorfosi di una star

Ho visto Aitana su Netflix. E prima anche Karol G. Due donne, due mondi, una stessa ferita: quella di dover “reggere il ruolo”

L’ho guardata con lo stesso scetticismo con cui spesso si osservano le “cose da Netflix”: belle luci, narrazione levigata, emozione calibrata al millimetro. Ma Aitana, la docuserie che segue l’ascesa della cantante spagnola Aitana Ocaña durante il suo primo tour mondiale, mi ha sorpreso. Lo stesso effetto me lo aveva fatto, giorni prima, un’altra serie molto simile: Karol G: Mañana Será Bonito Tour.

Due star, due generi musicali diversi, due estetiche all’opposto — eppure, sul fondo, una risonanza comune che mi ha colpito come psicoterapeuta e come spettatore: quella di donne giovanissime chiamate a reggere un’immagine, a trasformare il proprio in prodotto, a performare una coerenza che nella vita reale non esiste.

La narrazione del successo… e del collasso

In entrambe le serie assistiamo all’ascesa — quasi sempre trionfale — di artiste giovanissime che fanno i conti con l’enorme pressione di reggere un impero emotivo, estetico, commerciale. Ma dietro le quinte, tra un cambio d’abito e una corsa verso il palco, emerge il lato oscuro: l’ansia, il crollo nervoso, la fatica. Lo scarto tra l’energia che il pubblico si aspetta e il vuoto che si sente dentro.

Aitana confessa di avere paura. Di non essere abbastanza. Di non riuscire a “tenere tutto insieme”. Karol G, dal canto suo, mostra ferite più antiche: un cuore spezzato, il senso di solitudine, la sfiducia nel mondo maschile e nell’industria che spesso chiede di “essere forti” quando dentro ci si sente a pezzi.

E allora, da psicoterapeuta, mi è impossibile non notare il tratto comune: la dissociazione tra l’immagine e la soggettività. Il bisogno di essere visti, ma solo in una versione filtrata. Il desiderio di autenticità e, insieme, il terrore di cosa potrebbe succedere se davvero ci mostrassimo per come siamo.

L’identità come prestazione

Quello che queste serie rendono evidente, anche se a volte senza volerlo, è che oggi l’identità ha smesso di essere qualcosa che si scopre. È diventata qualcosa che si costruisce. O meglio: che si perform.

E questa non è solo una questione da star. Lo vedo ogni giorno nel mio lavoro in studio: adolescenti e adulti, uomini e donne, tutti affaticati da un bisogno sottile ma costante di dover essere all’altezza di un’immagine — sui social, nella coppia, nella famiglia, al lavoro.

La psicologia chiama questo processo “falso Sé”, un concetto reso celebre da Donald Winnicott: un’identità adattata, costruita per rispondere alle aspettative esterne, che a volte funziona così bene da diventare una prigione dorata. E il prezzo? Alienazione, esaurimento, senso di vuoto. Un’identità che brilla fuori ma si sgretola dentro.

La vulnerabilità come gesto radicale

Eppure, proprio lì — nella crepa — succede qualcosa. In un mondo che idolatra la perfezione, mostrarsi vulnerabili è un atto politico. Non parlo della “vulnerabilità da copertina”, quella costruita a tavolino per sembrare umani. Parlo della fatica vera. Del pianto nel backstage. Dell’ammettere di non farcela, davanti a tutti.

Aitana e Karol G, in modi diversi, mostrano anche questo. E ci offrono uno spunto importante: forse non serve sempre avere tutto sotto controllo. Forse possiamo iniziare a riconciliarci con l’idea che essere fragili non ci rende meno validi. Anzi, ci rende più veri.

Queste due serie, se viste con occhio clinico, sono molto più di un dietro le quinte musicale. Sono ritratti intimi di una condizione che ci riguarda tutti: quella di chi cerca di vivere in equilibrio tra ciò che è e ciò che “deve” essere.

E quindi sì, vale la pena guardarle. Non per cercare eroine perfette o modelli da seguire, ma per ricordarci che anche chi brilla ha il diritto di crollare. E che dietro ogni immagine patinata, c’è un’anima che chiede solo di essere riconosciuta. Senza filtri.

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