
“Altrove mi abita”
Ho deciso di scrivere questo articolo su un treno. In cuffia Nabucodonosor dei Baustelle.
Mi guardo intorno e non posso fare a meno di osservare tante persone, tutte cosi diverse ma con in comune il “vivere” in due luoghi.
Dal Sud viaggio verso Roma. Un tragitto già fatto mille e mille volte, eppure ogni volta diverso.
Le valigie pesano sempre uguale, ma dentro cambia tutto: chi sei, chi sei diventato, cosa lasci e cosa – forse – non ritroverai più.
Anche io, come tanti, sono stato un fuorisede.
Io non sono mai partito con l’idea di “tornare presto”, ho capito da subito che il ritorno non sarebbe stato più lo stesso.
La mia città natale? È ancora lì, certo.
Con i bar sempre negli stessi angoli, alcuni parenti di cui non so più nulla, altri che vorrei ogni volta portarli con me lontano da li, altri che non si spostano di un centimetro, gli amici che ti chiedono: “Ma perchè non ritorni, non ti manca?”
No, non mi manca. Non mi appartiene più. Forse non mi è mai appartenuta. E il problema è che, quando ritorno, non mi riconosce.
E io, in fondo, non riconosco più lei.
Chi sono i fuorisede oggi
Secondo i dati del Ministero dell’Università e della Ricerca, ogni anno circa 500.000 studenti italiani lasciano la propria regione per iscriversi a un’università fuori sede. Il flusso è chiaro: dal Sud verso il Centro e il Nord.
Le mete principali? Milano, Roma, Bologna, Torino e Padova. Le facoltà più gettonate: Medicina, Psicologia, Ingegneria, Economia, ma anche Design e Comunicazione.
Il Sud si svuota di giovani e cervelli. Le città universitarie si riempiono di accenti, dialetti, mix culturali e cucine diverse. Nascono convivenze improbabili, amori veloci, famiglie parallele nei fuori corso della vita.
Ma questa mobilità ha un costo. Economico, certo – con affitti insostenibili – ma soprattutto psicologico ed emotivo.
Cosa succede quando torni (e non è più casa)
Tornare nella propria città d’origine dopo anni da fuorisede è un’esperienza straniante.
La casa dei genitori è immutata, ma tu non lo sei più.
La clinica dove sei nato non “accoglie” più bambini appena nati, il tuo liceo è diventato un centro di eccellenza, ci sono alcuni degli stessi negozi monomarca che puoi trovare ovunque nel mondo. I vecchi amici hanno preso altre strade, o sono rimasti fermi – e in entrambi i casi, ti sembrano lontani.
Quello che provi ha un nome: dislocazione identitaria.
Come se l’identità che avevi lasciato lì non ti appartenesse più, ma quella nuova non avesse realmente ancora messo radici da nessuna parte.
In psicologia questo stato è stato studiato nei migranti, ma si applica anche ai micro-esodi interni: senso di spaesamento, nostalgia ambivalente, senso di colpa per chi è rimasto, crisi del senso di appartenenza.
Alcuni parlano di “effetto esule”: vivi da cittadino in due città, ma sei straniero in entrambe.
Il lavoro dopo gli studi: rimanere o ripartire?
Molti fuorisede, dopo la laurea, restano nella città dove hanno studiato. Trovano lavoro lì, o provano a costruire una vita con gli strumenti che si sono dati.
Secondo l’ISTAT, solo 3 studenti su 10 tornano nella regione d’origine dopo la laurea. Gli altri proseguono il percorso altrove, spesso in una metropoli del Centro-Nord o addirittura all’estero.
E qui nasce un altro conflitto: la città dove vivi non ti rappresenta del tutto, ma quella che ti rappresentava non ti basta più.
Il lavoro ti lega, gli affetti si spostano, i ritmi cambiano. Le radici diventano nomadi. La casa non è più un posto, ma una traiettoria.
Difficoltà psicologiche: il peso delle scelte invisibili
Essere fuorisede non è solo una questione di coordinate geografiche. È una prova emotiva profonda.
Significa affrontare la solitudine, imparare a chiedere aiuto, gestire il senso di colpa verso chi hai lasciato.
Significa diventare grandi in fretta, ma con pezzi di infanzia ancora infilati nelle tasche.
Significa anche avere nostalgia per qualcosa che non esiste più: un’idea di casa, un’identità collettiva, un tempo in cui tutto sembrava “più semplice”(ma non era!).
Le implicazioni psicologiche vanno dall’ansia da prestazione al senso di non appartenenza, passando per crisi di identità e, in alcuni casi, episodi depressivi legati al distacco o alla solitudine cronica.
Anche per questo, molti giovani cercano percorsi di supporto psicologico o si avvicinano alla terapia durante il periodo universitario.
Ogni volta che incontro un paziente fuorisede non posso fare a meno di sentirlo tanto vicino a me, al Me di 30 anni fa.
Mi contattano non per “curarsi”, ma per capirsi. Per trovare una voce stabile in mezzo al rumore delle scelte.
E ora? Dove metti casa, tu che non hai radici?
C’è chi ritorna. C’è chi resta. E c’è chi si reinventa ogni volta che cambia città, lavoro, relazione.
Ma i fuorisede veri, quelli che partono dentro prima ancora che fuori, portano sempre con sé un bivio non risolto.
Un amore odio strano per la città natale, un disincanto verso la nuova.
Una nostalgia che non sa più dove andare.
Ma forse è proprio da questi giovani “né di qua né di là” che può rinascere un’Italia nuova: più fluida, più consapevole, meno legata al campanile e più alle idee.
Perché essere fuorisede, in fondo, è imparare a essere cittadini del proprio destino. Ho la presunzione di dire che i fuorisede hanno “una marcia in più”, la marcia della sopravvivenza e della curiosità di “prendersi tutto” e anche di più.
E mentre il treno rallenta l’andatura, attraversando le prime periferie della città dove vivo ora, mi rendo conto che ogni ritorno è anche un piccolo addio. Che la città che ho lasciato non è più quella che ritrovo.
E che neanche io, in fondo, sono più lo stesso.
Ma va bene così.
Forse è proprio questo, crescere: continuare a partire, e imparare ogni volta a restare. Anche se altrove.
Fonte foto: Chris wu (@chrisjorwu) | Unsplash Photo Community