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“Ogni «è troppo tardi» è una violenza”

“Ogni «è troppo tardi» è una violenza”

di Rosella Postorino | Facebook

Articolo completo su @7corriere del 12 agosto 7Corriere | Facebook Corriere della Sera | Facebook

In una scena del mio primo romanzo un’adolescente è in una stanza con un uomo che frequenta da un po’. Si sente pronta a fare l’amore ma, quando lui la penetra, si accorge di essersi sbagliata e gli chiede di smettere. Lui continua, lei protesta, lui la blocca, lei si arrende e, inerte, lo lascia finire.
Un lettore mi disse che quella non poteva definirsi violenza, perché lei sembrava volerlo, fino a un certo momento l’ha voluto, poi ha cambiato idea, ma era troppo tardi.
Avevo in mente questa scena da quando, all’università, una ragazza mi aveva raccontato che un uomo più grande l’aveva penetrata in auto, nonostante lei non volesse. Gli aveva concesso di baciarla, spogliarla, toccarla, e quindi lui aveva creduto di poter andare oltre: probabilmente, come quel lettore, riteneva esistesse una soglia oltre la quale un maschio non può fermarsi. Troppo tardi.
Un’altra ragazza che conoscevo, ancora vergine, stava scoprendo il sesso con partner occasionali, ma per il rapporto completo aspettava di innamorarsi. Quando lui la penetrò lei gridò di sorpresa e dolore. Lui tentò di calmarla, convincerla, vedrai che poi ti piace, ma poiché lei piangeva si ritrasse. Non era uno stupratore, non si è mai considerato tale.
Nessun uomo si considera tale se, spinto dal desiderio, non si accerta che la donna lo voglia veramente. O se, consapevole che lei non sta partecipando, decide di andare avanti lo stesso, perché è troppo tardi.
Nell’immaginario collettivo lo stupratore è uno sconosciuto che aggredisce per strada di notte, lo stupro è un atto eccezionale, patologico. In realtà la maggioranza delle violenze contro le donne sono commesse da parenti e amici, oltre che dai mariti.
Nel 2018 in Svezia è stato introdotto il reato di «stupro per negligenza», che riguarda i casi in cui l’imputato non aveva intenzione di stuprare, ma ha trascurato il fatto che il consenso non fosse stato stabilito, né con le parole né con gli atti. Nessuna delle tre ragazze che ho citato, quella del mio libro e le due che l’hanno ispirata, aveva in effetti dato il suo consenso. Ma davvero la nozione di consenso ci tutela dal rischio di sesso obbligato?
La filosofa francese Manon Garcia ne dubita. Il concetto giuridico di consenso, spiega in Di cosa parliamo quando parliamo di consenso, presuppone un’uguaglianza fra individui che è illusoria, dato che nella società gli uomini hanno potere sulle donne e le diseguaglianze sociali condizionano le scelte delle persone.
Le donne possono trovarsi a fare sesso perché sono in una situazione di tacito ricatto, perché sono state educate all’accondiscendenza, ad anteporre ai propri desideri quelli altrui, in particolare i desideri dei maschi, perché il marito le fa vivere in uno stato di terrore, perché sono economicamente dipendenti, o perché hanno paura che la reazione degli uomini di fronte a un rifiuto possa essere violenta.
Nel 2017 divenne virale un racconto pubblicato da Kristen Roupenian sul «New Yorker», Cat Person, in cui una ragazza fa controvoglia sesso con un uomo: ormai è a casa sua, e la fatica emotiva di sottrarsi – adesso che è troppo tardi – sarebbe peggiore del senso di disgusto e umiliazione che sopporta nell’amplesso. Non credo sia casuale che, appena salita nella sua macchina, lei abbia pensato che quello sconosciuto avrebbe potuto ammazzarla. In una parte remota della coscienza le donne si sentono sempre in pericolo.
Tutto ciò è riemerso dopo che i giudici della corte d’appello di Torino hanno assolto un uomo condannato in primo grado per stupro. La vittima, un’amica che lui aveva più volte baciato, si era fatta accompagnare nel bagno di un locale, gli aveva chiesto di reggerle la borsa e passarle dei fazzolettini, lasciando socchiusa la porta, «così da far insorgere nell’uomo l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stesse offrendo». Lei ha raccontato di essersi opposta, ma secondo i giudici non seppe gestire la situazione «poiché un po’ sbronza ed assalita dal panico». (Appunto, dico io).
Insomma, lei ha mandato segnali equivoci e lui è stato tratto in inganno. Che poi lei abbia urlato cercando di allontanarlo conta meno, a quanto pare, della comunicazione «implicita» precedente. È questo il tema: l’idea che il sesso debba svolgersi come uno scambio tacito penalizza le donne. Garcia afferma che il futuro del sesso è invece la «conversazione erotica» e, se alcuni ritengono ridicolo il sincerarsi ripetutamente, durante l’incontro, che il partner sia a proprio agio, è perché l’idea patriarcale secondo cui l’uomo propone e la donna dispone è molto radicata.
In sostanza, non può essere il consenso giuridico a migliorare le relazioni sessuali tra maschi e femmine. Per evitare ingiustizie serve non un consenso formale, valido una volta per tutte, ma un consenso «continuo».
Mi pare auspicabile, e però temo anche che un incontro in cui tutto viene verbalizzato possa risultare un po’ legnoso. Esiste nel sesso una forma di ascolto che è legata alle reazioni del corpo, allo sguardo, al respiro. Forse si dovrebbe poter procedere per tentativi, rischiando di sbagliare, ma con la disponibilità a fermarsi in ogni istante, a cambiare registro. Ho il diritto di non sapere che cosa voglio finché non accade, non devo esser costretta a saperlo a priori, perché ciò che in generale mi piace può non piacermi quel giorno, o con quel partner. Il sesso è un’esperienza potente anche perché è ambigua, mai identica, e ci espone, ci rende vulnerabili: tutti, maschi e femmine. Che sia a parole o con i gesti, il punto è che ciascuno deve aver cura della volontà dell’altro, prima ancora che del suo desiderio: non sempre coincidono. Checché ne dicesse quel lettore, ogni «è troppo tardi» è una violenza.

 

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